Dal Quotidiano del 6 settembre 2009
L’evento cinematografico
«Badolato, uno dei paesi da me più amati, e il regista che ha influenzato maggiormente il mio modo di guardare»
Paris-Texas Badolato
di Vito Teti
Dal 9 al 13 settembre Wim Wenders sarà a Badolato e a Scilla per girare un cortometraggio di otto minuti. La notizia è di quelle che creano interesse e aspettative. Per la Calabria, è una buona, simbolica, notizia. Per me diventa quasi il concretizzarsi di una fantasia.
Badolato, uno dei paesi più frequentati da me e più amati, e Wenders, il regista che (insieme a Scorsese) ha influenzato maggiormente il mio modo di guardare e, a volte, anche di scrivere. Badolato e Wenders: il paese e il regista dei miei «falsi movimenti», dei miei «viaggi da fermo», o delle mie «soste movimentate». Ho come l’impressione di averli già “visti” insieme questi miei due “amici”, di essere stato io a farli incontrare.
Apro il mio “Il senso dei luoghi” (2004), dove parlo di Badolato, e leggo: «…Fisso lo sguardo nel punto dove la strada che stiamo percorrendo, la provinciale che scende dalle Serre va incontro alla statale Ionica 116. In prossimità di questo importante incrocio - qui sembrano abbracciare una vecchia e una nuova Calabria - sorgono nuove abitazioni, un supermercato, una Standa, negozi di generi alimentari, un self-service dal sapore americano dove si fermano camionisti stanchi e turisti nottambuli per bere l’ultima birra e comprare l’ultimo pacchetto di sigarette della giornata. Guardo il confondersi, il sovrapporsi, l’accavallarsi di strade, ponti, cavalcavia, linee ferrate. Questo luogo abbracciato dall’alto mi ricorda le immagini di viaggio di qualche film americano, o, se preferite, sembra l’inquadratura di un film di Wenders. Questa visione di Calabria arriva come una cartolina emblematica di una terra in movimento, o come direbbe il regista tedesco di un “falso movimento”».
Chiudo il libro. Con un certo compiacimento. Sento che è ora di tornare a Badolato.
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Primi viaggi a Badolato. Alla fine degli anni Settanta. Il pellegrinaggio, quasi religioso, da etnografo, quasi da “archeologo”, in un paese in abbandono. Con i colleghi e gli allievi dell’Accademia di Belle Arti di Catanzaro. Lo spopolamento del paese era iniziato con la tremenda alluvione dell’ottobre 1951: quella che cominciò, insieme all’emigrazione, a cancellare Africo e Casalnuovo, Careri e Canolo, Brancaleone Superiore e Nardodipace, Cassari e tanti altri “paesi presepi” del versante jonico. A Badolato vi era già la tendenza a “scendere”: il terremoto del 1947 aveva spinto alcune famiglie lungo la marina. Il tarlo della fuga e dell’abbandono era in moto e l’alluvione diventa un pretesto per portare a compimento, per dare legittimità, un processo di mobilità già in corso. Nasce un “doppio”, uno dei tanti doppi che si inseguono e si confondono lungo la costa, e il “paese antico” lentamente si svuota.
Provavamo, noi visitatori appassionati, ad elencare le possibili ragioni di una scelta abbastanza traumatica: comodità, servizi, vicinanza al posto di lavoro, alle scuole, alle vie di comunicazione, ai centri commerciali. La risposta che allora ci inventavamo era che non c’era nessuna vera, concreta ragione, per lasciare un angolo di storia e di bellezza e scendere in un posto, tutto sommato, brutto. Considerazioni di intellettuali nostalgici? Resto di questo avviso, adesso che il termine nostalgia, dopo tanta ubriacatura modernista, può essere pronunciato senza essere accusato di passatismo. Adesso che “locale” non suona più come “localismo”. La crisi sta facendo chiarezza e spinge verso nuovi modelli.
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Viaggio di stupore, di cordoglio e di speranza. Mimmo Lanciano, giovane studioso di storia locale, a inizio anni Novanta, lancia la provocazione «Badolato paese in vendita», con il sogno di arrestare un esodo che stava portando allo svuotamento e al degrado di uno dei più affascinanti paesi della Calabria. L’appello fa il giro del mondo, attira giornalisti e televisioni, qualche agente immobiliare, società di albergatori e di costruttori. Badolato continuava a svuotarsi.
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Viaggi per conoscere e accogliere i nuovi erranti. Il 26 dicembre del 1997, lungo la costa di S. Caterina e di Badolato approda, dopo un lungo viaggio, una carretta carica di profughi, esattamente 835 curdi provenienti dalla Turchia, dall’Iran e dall’Iraq, ma anche di altre etnie. Quello dell’«Ararat» era il sesto sbarco di che a partire da quello iniziale del maggio 1997 in territorio Guardavalle andava segnando diversamente dal passato le marine dello jonio.
Le immagini delle televisioni di tutto il mondo portano nelle case quei corpi ammassati come bestie sulle carrette: uomini con i volti stanchi e la barba lunga, che fanno con la mano il segno della vittoria; donne con le vesti lunghe e il volto semicoperto con in braccio o in mano bambini spaventati e insieme sorridenti. Le immagini della televisione narrano anche la generosa accoglienza delle persone del luogo.
Tante speranze, progetti, iniziative del Cir e di Daniela Trapasso. Sono tornato tante volte a Badolato, in varie occasioni, a partire dal 1999. Ricordo un giorno dell’estate 2000 in compagnia di Vinicio Leonetti, amico giornalista della «Gazzetta del Sud», che ha seguito le vicende dei primi sbarchi. Sono con Felicia, mia moglie, e con Stefano, il mio bambino di un anno (meglio abituarlo, pensavo, penso agli incontri multiculturali) Daniela Trapasso, in una piccola stanza al piano terra del Municipio di Badolato, un antico palazzo restaurato, allora anche sede del Cir, parla, instancabile e appassionata, con un gruppo di sei-sette curdi che la circondano e la incalzano con domande come se fossero impegnati in un ballo di propiziazione. Badolato viene ormai chiamato «Curdolato».
Al bar del paese, i curdi sono seduti attorno a un tavolo su cui fanno bella mostra numerose lattine di birre e di Coca Cola. I curdi, in quel periodo, passano il tempo in una sorta di sospensione e di «attesa». Le parole che i curdi hanno imparato più in fretta sono «domani», «dopodomani», «poi» con riferimento ai ritardi burocratici del nostro governo. Qui «domani» ha ancora una volta il sapore della beffa. I gruppi dirigenti locali e nazionali hanno esasperato e stravolto il senso della lentezza mediterranea; e «domani» può significare domani, tra un anno, mai, come attesta una storia regionale di promesse mai mantenute, di opere pubbliche sempre incompiute, di piani regolatori sempre modificati e mai divenuti operanti, di posti di lavoro sempre proclamati e mai realmente creati.
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Comincio, da allora, a visitare e a frequentare periodicamente Badolato. Voglio capire quel luogo, dove i curdi restano impressionati per i tanti funerali. Ad ogni morte, anche qui, chiude una casa, una storia. Ascolto la gente. Registro. Partecipo. Domando e mi interrogo. La gente torna dalla marina e dalle mille Badolato sparse nel mondo per seppellire i defunti, e per le feste di Pasqua. Roth ha scritto che ognuno di noi, dovunque si trovi, appartiene ancora al luogo in cui sono sepolti i padri. Il giorno dei defunti diventa un’occasione di visita al cimitero, ma di ritorno al vecchio abitato. Il vecchio abitato continua a fare parte degli orizzonti, dei ricordi, delle percezioni anche di coloro che sono nati in marina o altrove. Intanto continua a svuotarsi.
Mi accompagna, in questi miei viaggi, nelle mie ricerche, Vincenzo Squillacioti, anima del luogo, studioso di storia locale, persona perbene, direttore e animatore di «Radici» una delle più riuscite riviste di comunità. Con la rivista e l’Associazione promuove indagini, immagina itinerari turistici, organizza presentazioni di libri, manifestazioni culturali, progetta. Il paese d’estate mostra una qualche vitalità, d’inverno è vuoto. Con Eugenio Lijoi, amico regista, originario di S. Andrea, riprendiamo la gente, ascoltiamo i pochi giovani, filmiamo i riti della Settimana Santa, giriamo scene di vita ordinaria. Un piano ambizioso: documentare e raccontare per immagini i processi di spopolamento e le speranze di “ripopolamento”. Giro, con altri amici e colleghi dell’Unical i paesi dell’abbandono: Cleto e Cerenzia, Africo e Ferruzzano. Ascolto. Registro. E’ un’intera geografia che scivola, un’antropologia che si smarrisce. Prima o poi ultimerò anche questi filmati. Qualcuno ci sosterrà con la spesa di una sagra estiva.
L’abbandono è il grande problema della regione, delle aree montane di varie parti d’Italia. Mentre si parla di ricostruzione, crollano altri paesi. La frana svuota Cavallerizzo. Esodo. Dispersioni. Delusione. Speranze. Ricostruzione. Le acque abbandonate a se stesse provocano lutti e disastri: Crotone, Soverato, Bivona, l’autostrada. L’abbandono crea “zone franche” per la criminalità. I fondali marini, le montagne, le colline, i boschi, a quanto pare, sono diventati le pattumiere di Europa. Scorie radioattive. Mafie. Affari. E come se avessimo dato fuoco ai nostri “pozzi petroliferi”.
Si fa presto a dire: proteggiamo il territorio, quando spuntano arpie fameliche, abili e cinici intercettatori dei benefici dei disastri e delle emergenze. Anche le buone intenzioni, anche le pratiche dell’accoglienza, anche tanti sforzi e generosità, in assenza di politiche dal basso, sostenute dall’alto, di controlli, di regole, di legalità. Rischiano di favorire, involontariamente, lo svuotamento.
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Qualcosa non ha funzionato con i curdi, a Badolato. Erano e si sentivano di passaggio. Il paese ha conosciuto tante crisi amministrative. Molti progetti venivano calati dall’alto e dall’esterno. Qualcuno badava, forse, più all’immagine, magari alla propria, che alla sostanza. L’accoglienza rischiava di diventare più una buona intenzione che non una pratica. Bisogna essere sinceri, dire la verità, con la storia dell’ospitalità dei calabresi. Per non trasformarla in leggenda. Chi può dire che ospitare e accogliere non appartengono alla nostra storia e alla nostra cultura, non facciano parte delle nostre forme di rappresentazione? E tuttavia, per evitare la retorica, valori come quelli dell’accoglienza, dell’ospitalità, del dono non possono essere assolutizzati come una sorta di carattere naturale del calabrese. Anche in questo caso la “persuasione” viaggia a rimorchio della retorica. Una sottile linea d’ombra, di confine, nella terra dei grandi contrasti, separa la convinzione dall’enfasi. L’ospitalità non può essere etnicizzata, non può essere sbandierata come merce di consumo, non deve assumere i connotati della spettacolarizzazione. Diceva, all’epoca, Vincenzo Squillacioti: «Ferma restando l’ospitalità dei badolatesi, certe iniziative in loro favore si sono tradotte in un grand bluff. L’ospitalità è stata per alcuni anche interessata».
L’ospitalità la si pratica, non la si inventa e non la si predica. Ospitale si è, non ci si proclama tali. Può diventare un’occasione vera e nobile se i calabresi sanno accogliere se stessi prima degli altri, se avranno la capacità di tenere belli i propri paesi per loro stessi e poi per gli altri. Per fortuna in altri paesi l’ospitalità e l’accoglienza stanno diventando, tra molte difficoltà, una pratica e non uno slogan.
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Riace, per molti è il paese dei Bronzi. Io l’ho conosciuto e lo ricordo soprattutto come il paese dei Santi Cosma e Damiano. Alla fine degli anni Settanta il paese veniva raggiunto dai pellegrini delle Serre e dello Jonio. Era una grande festa. Ricordo mastro Mico, che mi accompagna sulla spiaggia di Riace per mostrarmi il luogo in cui sarebbero “sbarcati” i Santi medici, esattamente là dove sono stati trovati i Bronzi. Ricordo le processioni dal paese al Santuario e, da qui, il ritorno in paese. Ricordo le veglie in chiesa con le donne che “dormono” e pregano, stese per terra e le ragazze che arrivano con gli ex voto. Ricordo le salsicce fresche e i fuochi d’artificio, il ballo degli zingari e mastro Micu, devoto e commosso, che afferra i bambini, li avvicina alle statue dei santi e li restituisce ai genitori. La festa cambiava, ma il paese era ancora vivo. Tornavano gli emigrati. Tornavano i giovani. Tutto un mondo mobile narrava di arrivi e di partenze. Qualche volta di ritorni. Lentamente anche il centro di Riace cominciò a svuotarsi. Poi il miracolo. Accadono sempre più raramente dalle nostre parti e bisogna raccontarli. Grazie a Mimmo Lucano, sindaco coraggioso e amante del luogo, che ha favorito, fin da quando non era ancora amministratore, l’arrivo a Riace di immigrati, di rifugiati politici o che richiedevano asilo. Riace è diventato un borgo multietnico: un bel segnale in una terra governata da uomini che vogliono buttare a mare altri uomini, che respingono donne e bambini. Molti stranieri giunti a Riace hanno trovato un alloggio in un centro storico “recuperato”. Si sono sposati con gente del luogo, hanno fatto figli e si sono stabiliti in questo paese che si affaccia sullo Jonio. Non se ne sono più andati. Altri due sindaci della Locride: Ilario Amendolia di Caulonia e Piero Sasso di Stignano hanno creduto in un nuovo paese, capace di fare, di inventare, di accogliere. Grazie al sostegno della Regione Calabria (che ha colto anche il valore simbolico e metaforico dell’evento) gli immigrati lavorano in laboratori artigianali assieme ai giovani del paese. Nei vicoli di Riace sono nati piccoli laboratori dove si lavora il vetro, l’argilla,i tessuti. Le case cadenti del centro storico, abbandonate dagli emigrati calabresi finiti in Germania o a Milano, sono divenuti alloggi che vengono destinati agli immigrati. Sono circa 300 i nuovi abitanti di Calabria venuti da fuori e, quando capita, lavorano, ballano, cantano insieme ai vecchi e ai giovani del paese. Arrivano curiosi e giornalisti da tutta Europa. Il cantiere è aperto, la partita va giocata, non mancano le difficoltà, gli ostacoli, ma come non registrare la bellezza di quanto avviene in questi piccoli centri? E come non segnalare che i tanti paesi dell’interno ormai vivono grazie a immigrati che lavorano nell’edilizia e nelle campagne, a “badanti” che curano gli anziani. L’impensabile, l’imprevedibile è avvenuto. La terra delle partenze è diventata terra degli arrivi. E’ la novità da cogliere, da assumerci, non solo per “dovere”, ma anche per “convenienza”. Per anni avevo immaginato la mia “ruga” piena dei bambini delle persone emigrate che sarebbero tornate. Non è tornato nessuno. Le case sono vuote. I miei bambini hanno come compagni di gioco i figli di romeni nati qui, nuovi paesani, che danno un’altra anima al paese.
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Non so se Wenders arriva in Calabria anche dopo aver sentito queste storie. Quello che importa è che dopo le Paris-Texas, le distese americane, il cielo sopra e sotto Berlino, la Lisbona dei Madredeus, la Palermo Shooting, abbia immaginato Badolato e Scilla come luoghi per raccontare il suo eterno viaggiare (direbbe Claudio Magris), il suo desiderio di scoprire l’alterità e la diversità. Cosa racconta “Il Volo” di Wenders, con la sceneggiatura di Eugenio Melloni, e attore protagonista Ben Gazzara e altri attori del luogo? Il soggetto è ispirato alle esperienze di accoglienza verso i profughi e rifugiati. Un paese della costa calabrese quasi spopolato. Per un bambino (forse l’unico) è difficile giocare anche a pallone, vista la mancanza di altri bambini. Nel paese arriva un gruppo di giovani immigrati africani a bordo di un barcone, creando scompiglio nell’amministrazione locale. Si confrontano e si scontrano posizioni diverse discussioni sulla possibilità di accoglierli. Il bambino e il sindaco del paese daranno alla vicenda una svolta decisiva con un finale a sorpresa. Una sorta di “fiaba” che apre alla speranza, ma che sembra voler cogliere molte sollecitazioni che arrivano da tanti paesi in abbandono.
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Durante l’estate ho visitato tanti paesi della regioni. Molti all’interno e a rischio abbandono. L’ho fatto per bisogno antico, per amore, per capire cosa resta e cosa cambia. Ho visto, davvero, un villaggio dove vive solo un bambino, ultimo nato negli ultimi dieci anni. Per andare a scuola e a giocare con altri ragazzi, i genitori (nel paese vivono soltanto trenta persone) debbono accompagnarlo due volte al giorno in un paese della costa che dista venti chilometri. Questo paese, come altri, non sembra avere futuro. Intanto bisogna occuparsi anche di quell’unico bambino. Racconto questa storia ai tanti amici e conoscenti che incontro nella piazza di Badolato la mattina del 25 agosto. Tutti mi guardano con curiosità, come se aspettassero che riveli il nome del paese. In giro ci sono, tanti bambini, che attendono di fare un “provino” per il cortometraggio di Wenders. Faccio il bambino e rispondo: «Non vi dico il nome del paese, nemmeno sotto tortura». Non è che consideri i luoghi una riserva, un giocattolo da non fare vedere. Al contrario: sono infastidito dal vedere trattati i paesi come giocattoli, come luoghi esotici. Sono stanco di leggere la Calabria raccontata da giornalisti e osservatori frettolosi, prevenuti, con le idee già chiare ancora prima di essere arrivati, quasi moderni epigoni del Grand Tour. E sono infastidito dai nostrani apocalittici o integrati che, all’uopo, ci spiegano cosa è una Calabria che non hanno mai visitato e ci descrivono paesi mai visti, ossessionati dal mito dell’arcaicità o da quello, complementare, della postmodernità. Salvo rare e belle eccezioni, da ormai quarant’anni ho incontrato pochi nostri moderni descrittori.
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Sono tornato a Badolato, allora, in compagnia di mia moglie, e dei miei due bambini, Stefano e Caterina, dodici e dieci anni. Non posso perdere l’occasione di fare vedere ai bambini come “location”, come set cinematografico di uno dei più grandi registi viventi. In fondo anche loro sono abituati a questi luoghi. Il Bar degli artisti, nella grande piazza in cima al paese (nata al seguito della demolizione di alcune abitazioni), è animato come il bar della Pace a Roma. Attorno ai tavolini: fotografi, giornalisti, bambini con i genitori, amministratori, abitanti. Elio Gentile e Patrizia Talarico, esponenti di Calabria Film Commission, che dirigono il casting che si occupa del film, si muovono trafelati, con l’aria intensa e partecipata di chi si sente impegnato in un’impresa che lascerà il segno. Adesso fanno dei sopraluoghi e cercano di individuare di Peppino, il piccolo protagonista maschile e altre figure previste dalla sceneggiatura.
Partecipo a questo gioco con mio figlio. Biondo e con gli occhi azzurri mi sembra perfetto per rappresentare il “tipico” bambino di Calabria. Si diverte e ci divertiamo. Arriva un troupe di TeleJonio. Intervista lo studioso che da anni osserva Badolato. Incontro la compagna di Piero Pelù che si muove come una donna del luogo. Il musicista ha preso casa a Badolato. Abita il paese d’inverno, conosce la gente, ha appreso il dialetto. Pensa che questa nuova lingua (anche quella sonora) possa arricchire la sua arte. Come lui ha fatto Anna Giannizzi, una garbata signora originaria della Puglia, vissuta al Nord. Ha aperto un Bed& Breakfast recuperando e unificando due vecchie abitazioni. Ha portato con sé genitori a Badolato e qui li ha sepolti. E’ arrivata con molto entusiasmo. Adesso tema di non farcela: quello che guadagna d’estate non basta per i mesi invernali. Turi Caminiti, presidente del Consiglio Comunale, accoglie, entusiasta, quasi euforico, paesani e forestieri, narra storie, illustra progetti dell’amministrazione. L’arrivo di Wenders è contagioso, suscita speranze, un clima di gioiosa festa, di attesa, di buoni propositi. Il sindaco (da un anno) Nicola Barretta mi dice che del recupero dell’antica Badolato ha fatto un punto centrale del suo programma amministrativo. C’è da augurarsi che sia così e che ce la faccia. Con progetti non invasivi, con recuperi “ragionevoli”, mirati, rispettosi, come suggeriscono gli amici della Radice. Non incontro Daniela Trapasso. L’esperienza dei curdi è finita, ma il Cir funziona a livello regionale, e lei è sempre attiva. Dopo qualche delusione, è impegnata a presentare progetti mirati ad ospitare immigrati e rifugiati. Anche grazie a lei Badolato ha lanciato messaggi che sono stati raccolti e adesso è contagiato da iniziative di altri paesi.
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Proprio perché ho criticato e combattuto l’Impero (quello austro-ungarico), diceva Roth, adesso che non c’è più posso averne nostalgia. Soltanto come modello ideale di riferimento. Anche Pasolini aveva nostalgia della civiltà contadina non per ripristinarla, ma per criticare il presente e le devastazioni in atto. Proprio perché ho sempre detto liberamente quello che penso e sono stato, giustamente, critico con certe pratiche politiche, penso che sia doveroso cogliere i segnali positivi che qualche volta (sia pure confusamente) arrivano. Criticare, denunciare, indignarsi hanno un senso si aprono alla proposta e alla speranza. Altrimenti meglio non scrivere, meglio appartarsi, meglio rinunciare.
La pellicola costerà 183.700 mila euro e la Regione Calabria, che ne è coproduttrice, partecipa con una quota quantificata in 70.000 euro. Un’inezia rispetto a sprechi enormi registrati in tutti i settori della vita pubblica, un’inezia a confronto di spese per finanziare manifestazioni folkloristiche e deteriori, che non danno alcun ritorno di immagine. Ben poca cosa se si pensa che per molte feste si spendono somme di gran lunga più elevate per spettacoli scadenti e inutili. E’ apprezzabile che gli eventuali ricavati saranno reinvestiti in progetti che hanno a che fare con l’accoglienza e inserimento dei profughi e dei richiedenti asilo sul territorio, coniugandolo allo sviluppo socio-economico delle comunità locali. La Calabria è stata la prima Regione italiana a dotarsi di una legge per promuovere l’accoglienza. In questa Italia dei leghismi, dei localismi, dei razzismi non è poca cosa. Certo le operazioni di immagini (quelle di qualità, ben fatte, poco costose) sono sempre apprezzabili, utili a condizione che seguano azioni politiche e iniziative incisive e mirate. L’accoglienza potrebbe restare uno slogan, un’occasione mancata, in assenza di un grande piano di recupero e valorizzazione del paesaggio, dei paesi, dei luoghi.
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Incontro finalmente Vincenzo Squillacioti. Gioia reciproca. Era in giro ad accompagnare una troupe di rai 2 nei vicoli, a mostrare palazzi e basi, mulini e fontane, chiese e forgie. Qual è la situazione? Stringe le spalle, come fa l’uomo saggio, che è vede la realtà e pensa che non bisogna arrendersi. Ha fatto un ultimo censimento, casa per casa, famiglia per famiglia. “Sopra” abitano non più di 390 persone, forse 300-350. La popolazione residente del paese è di 3276: la gente continua ad emigrare. Soprattutto i giovani. La nuova emigrazione. Intanto è nata una Badolato “tre”, un Villaggio dei danesi, sulla collina di Vallina, in prossimità della 106, al confine con Isca. Cento-centoventi villini a schiera che guardano il mare. I danesi sono arrivati già l’anno scorso, hanno acquistato la casa tramite agenzia. Un mese d’estate e poi hanno ricevuto la visita non gradita di qualcuno che ha svuotato le loro abitazioni. Si sentono i primi mugugni. Il paese si svuota, il paesaggio si scheggia, si frantuma. Il nuovo non fa vivere l’antico. Interno e marine non comunicano, non sono collegati. Ben vengano, dice Vincenzo, queste iniziative, le manifestazioni musicali e culturali, ma poi d’inverno il paese si svuota. Mi dice: «I Bed& Breakfast a Badolato Superiore ormai pullulano: non c’è soltanto quello di Anna Giannuzzi, ce ne sono altri tre o quattro, ma lavorano soltanto un mese o due al massimo durante l’anno. Ce ne sono pure in marina. In Marina c’è pure (ristrutturato) un decente albergo a tre stelle: Ma neanche in Marina si lavora tutto l’anno. In novembre da queste parti è un morire. E così sino a maggio. Attenzione, però: non va meglio neanche a Soverato. Neanche col mercatino dell’antiquariato l’ultima domenica di ogni mese: ci va poca gente che cerca l’oggettino desiderato». E allora? Vincenzo non ha soltanto risposte, ha avanzato anche proposte:
«Ci vuole un turismo di tipo culturale e didattico, per richiamare gente tutto l’anno. Ma ci vuole pure un’offerta qualificata e organizzata, in un contesto in cui funzionino i servizi essenziali, e non solo quelli. Ovviamente ci vuole anche la possibilità di arrivare a Badolato, a Isca, a S. Caterina, in treno e in automobile. Un Museo “diffuso” e possibilmente comprensoriale, pubblicizzato in tutta Europa, anche via internet, creerebbe posti di lavoro stabili e costituirebbe un volano per un tipo di economia dovuta alla ricettività soprattutto».
Creare strutture stabili, centri permanenti, itinerari culturali. Guide. Scuole. Ricerche. Formazione. Aggregazione e lavoro per tanti giovani. Oltre l’effimero estivo, anche quando di qualità. La Radice ha presentato alla Regione un progetto di percorsi culturali all’aperto: i frantoi, i mulini, i palmenti, le carcare, le fornaci, le cascate, il paesaggio, le fontane-abbeveratoi, i calvari, le torri d’avvistamento, le torri campanarie, le cascate, i cenobi basiliani, i ruderi delle opere difensive, le porte medioevali, gli scavi (dove ci sono), le botteghe artigianali e gli innumerevoli oggetti della civiltà contadina e artigiana (La Radice ne possiede già centinaia).
Il Comune ha assicurato la donazione di palazzi nobiliari antichi. Si attendono risposte dalla Regione Il turismo culturale. La cultura. Ne parlano tanti, tutti, per scrivere un “gran romanzo” delle cose da fare. Predrag Matvejevic ricorda, contro tante retoriche identitarie e piagnistei sul Mediterraneo, che l’immagine che offre oggi il mare nostrum, non è per nulla rassicurante. L’Unione europea, del resto, si è compiuta senza tener conto del Mediterraneo: un’Europa separata dalla «culla dell’Europa». I parametri con i quali al Nord si osservano il presente e l’avvenire del Mediterraneo non concordano sempre con quelli del Sud. Il Mediterraneo, nota lo scrittore, si presenta come uno stato di cose, non riesce a diventare un vero progetto. Questo vale per l’Italia intera e per la Calabria in particolare. Un’identità dell’essere, forte e intensa, non riesce a trovare un’identità del fare conveniente e adeguata. La “retrospettiva” continua più di una volta ad avere la meglio sulla prospettiva.
Badolato è un paese metafora dell’abbandono, della rovina, della fuga, delle speranze, dei sogni, dei rimorsi, delle nostalgie, delle fantasie di tutta la Calabria, dell’intero Mezzogiorno. E’ un borgo medievale di struggente bellezza, dagli inconfondibili lineamenti paesaggistici ed architettonici. Eppure muore, come tanti altri paesi dell’interno. Il grande tema – a cui è legato quello del mare sporco, del dissesto idrogeologico, della devastazione del paesaggio – è quello dello spopolamento. Ripopolare un paese è processo impegnativo, costante, richiede passioni e fantasie, strategie, progetti. Richiede un impegno dei “locali”, che spesso (il problema è generale) appaiono rassegnati, assuefatti, delegano a politici inaffidabili, impresentabili.
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Saluto Vincenzo, che non è riuscito a trattenerci a pranzo, ma ci ha offerto degli ottimi panini. Il mare di Isca ci aspetta. Mentre prendo la 106, penso a quanto scrivevo ne “Il senso dei luoghi”, pensando a Wenders prima che arrivasse.
«Le cento “Paris-Texas” qui si chiamano Soverato Marina, Marina di Davoli, S. Andrea Ionio Marina, Isca Marina, Badolato Marina, S. Caterina dello Ionio Marina, Guardavalle Marina, Monasterace Marina, Riace Marina, Caulonia Marina, Roccella Jonica, Marina di Gioiosa Jonica, Siderno, Locri, Ardore Marina, Bovalino, e poi Bianco, S. Ilario Marina, Africo, Brancaleone. Lungo le marine si è verificata la ricostruzione e la reinvenzione dei paesi dell’interno. Più volte ho pensato a questi posti come a una sorta di non luogo, di luoghi senz’anima e senza identità, ma molte volte, poi, mi accorgo che anche questi posti anonimi tendono ad affermarsi come luoghi. Per molti versi sembrerebbero i paesi dell’interno, sempre più vuoti, i veri non luoghi della Calabria, ridotti ad ombre, a spazi vuoti, a crogiuolo di case disabitate».
Continuano a sorgere villaggi. Il cemento avanza, stravolge, distrugge mentre versiamo lacrime di gioia e di dolore per la bellezza del paesaggio. Il paesaggio, purtroppo, mi appare ancora più sfrangiato, devastato. Le “rovine”, come scrivevo giorni addietro, su questo giornale, a volte sovrastano la bellezza. La Calabria diventerà l’eccezionale set per storie normali? Un luogo di Angeli che volano, come ne “Il cielo sopra Berlino”. O un luogo di rovine postmoderne del dopocatastrofe? Come in “Fino alla fine del mondo”. “Nel corso del tempo”, le immagini di Wenders, sono sicuro, ci aiuteranno almeno a riflettere, ad assumerci responsabilità, a vedere con altro occhio i luoghi che non vogliamo e non sappiamo guardare. A coltivare l’arte di “andare in città”, come Alice, a metterci in gioco, a farci osservare e a limitare la pratica dell’autosservazione sterile, che si trasforma in autocompiacimento assolutorio. E comunque, benvenuto Wim.